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6 aprile 2016

Il piacere di andare sotto dettatura











Si chiamavano dattilografe.

Anzi, stenodattilografe, perché oltre a saper battere a macchina sapevano anche stenografare.

Erano gli angeli dei ministeri, degli uffici, delle copisterie, lavoratrici indispensabili per tradurre in dattiloscritti le pagine scritte a mano.


Negli uffici qualsiasi impiegato, di gruppo A o di gruppo B, aveva una apposita cestina sul suo tavolo, con la scritta: “Copia”.

Lui scriveva a mano, più o meno ordinatamente, e poi metteva i suoi foglietti nella cestina.

Loro, gli angeli del tasto, svuotavano la cestina, si portavano via i fogli, e dopo un po’ riportavano i loro compitini fatti, con i fogli dattiloscritti in doppia copia, farciti della carta carbone.


Bè, a dire il vero non andava sempre così, perché c’erano le dattilografe modello ma anche quelle pigre, e magari toccava agli impiegati portare i loro foglietti alle fanciulle e pregarle con sorrisi melliflui di provvedere alla battitura.

Le dattilografe spesso avevano un gran faldone di foglietti da copiare, e si seccavano, oppure privilegiavano gli scritti degli impiegati simpatici e lasciavano in fondo quelli degli altri.


Insomma, avevano un piccolo potere: una pratica in attesa di battitura poteva stagionare per settimane in un cassetto, e il povero impiegato rischiava di essere redarguito dal capoufficio…

Il capoufficio in questione non aveva di questi problemi: lui dettava.

C’erano delle segretarie solerti che avevano un particolare piacere nell’andare “sotto battitura”.

Appena il capo le chiamava, loro si armavano di taccuino e penna e correvano nella stanza del boss con particolare sussiego.


Poi, mentre lui camminava su e giù per la stanza dettando con aria ispirata, le segretarie scrivevano o talvolta stenografavano, con le gambe accavallate e il taccuino sulle ginocchia.

Lui si sentiva molto creativo, e in quel momento il suo lavoro gli appariva davvero importante.

Quando aveva finito, si fermava un attimo, quasi svegliandosi da un sogno, e guardava la segretaria con distacco, dicendole: “Vada”.

Lei usciva tutta agitata, timorosa di non aver capito tutto ciò che il capo aveva dettato, e si precipitava al suo tavolo, pronta a trascrivere le sue parole senza degnare di uno sguardo il faldone strapieno dei foglietti degli altri impiegati.


La macchina da scrivere era la forza delle dattilografe, ma anche la debolezza, perché segnava il loro destino di subalterne.

Gli impiegati, anche i più modesti, non si avvicinavano nemmeno a quelle macchine, simbolo di uno status considerato inferiore al proprio.

Spesso erano tentati, per velocizzare una pratica, di avvicinarsi alla macchina da scrivere e battersi da soli il loro foglietto: magari erano bravissimi a usarla, e a casa loro le dita volavano sulla Olivetti Lettera 22 che possedevano.


Ma in ufficio no, non si doveva far sapere che erano perfettamente in grado di dattiloscriversi le loro pratiche: 
noblesse oblige…








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